giovedì, agosto 30, 2007

venerdì, agosto 24, 2007

Palio

SIENA, 16 agosto 2007
Con il fantino Scompiglio su Brento,
la contrada del Leocorno si è aggiudicata
il Palio di Siena dell'Assunta 2007

foto di marco delogu (2007)





giovedì, agosto 23, 2007

lo potevo fare anch'io....?

ho appena letto uno splendido libro di Francesco Bonami* sull'arte contemporanea:
"lo potevo fare anch'io"- collana Strade Blu - Mondadori - Milano 2007


"la nona ora"
maurizio cattelan [1999]

l'estate sta finendo.......

venerdì, agosto 17, 2007

ARBUTUS UNEDO




FAMIGLIA: Ericaceae
NOME VOLGARE: Corbezzolo
HABITAT: Macchie e leccete


ippolito pizzetti (milano 1926_roma 2007)
non c'è più, nella mia memoria il corbezzolo rosso è quello che mi ha lasciato
un albero sempreverde come lui......

Uno spettacolo in quattro atti
Progettare un giardino
di IPPOLITO PIZZETTI

Mi è stato chiesto molte volte come mai io, che avevo deciso di intraprendere gli studi classici, e mi sono laureato di conseguenza in Letteratura Italiana, poco dopo aver raggiunto i trenta anni, abbia deciso di cambiare rotta e mettermi a fare l'architetto di giardini: perché, ad un certo punto, ho ritenuto che quella era la strada che mi sarebbe più piaciuto percorrere.
Devo premettere che già al tempo in cui ho cominciato ad operare in questa professione, i privati che dessero l'incarico di progettare il loro ad un "architetto di giardini" in Italia erano pochi assai, se non pochissimi. Non voglio neppure fare il calcolo del numero di quelli che ho progettato, e ancor meno di quelli portati a termine, davvero esiguo rispetto a quanti vengono realizzati dai professionisti all'estero. Certo, per essere sincero, a differenza di quanto hanno dichiarato molti di coloro che praticano qui da noi questa professione, devo confessarlo, non mi è mai passato neppure per il capo di progettare un giardino concepito su misura per il cliente, come se si trattasse di un vestito. Io considero il mio cliente, non diversamente da me che lo progetto, uno che per buona sorte si trova ad avere a disposizione un terreno, uno spazio su cui fondare il giardino. E che se conosce così a fondo i suoi desiderata, per realizzarlo non ha che da rivolgersi ad un esperto vivaista. E non certo per mia presunzione, ma perché il mio primo pensiero è quello di cogliere, di trovare nel luogo, nella formazione del terreno, nella presenza di una vegetazione originale, la chiave con la quale operare.
Sarebbe un discorso che mi porterebbe lontano, troppo, lasciamo andare, ma nelle mie prime fantasie sono venuto dal teatro, sono partito di lì.
Quercia, Frassino, Acero campestre

Nel giardino che progetto voglio che si realizzi uno spettacolo continuamente in evoluzione, in quattro parti che convergono l'una dentro l'altra, chiamateli pure quattro atti: primavera, estate, autunno, inverno, e cerco che operino dentro ciascuno di questi i possibili protagonisti della vicenda. Che possono essere presenti o no nello spazio su cui intendo operare, ma che comunque presenti hanno da essere nel paesaggio naturale di cui anche quel giardino fa parte: questo è anche il motivo per cui gli elementi principali, i protagonisti, sono presenti ancor prima che all'interno di esso, fuori di esso. Il che non è per nulla difficile da comprendere; ma se andiamo a vedere come si sono venuti concretando i giardini privati e anche pubblici nella massima parte del nostro paese, specie al centro e al nord, tra la fine del secolo XIX e poi nel XX, è facile rendersi conto di come la strada che voglio intraprendere, le mie scelte, siano diametralmente all'opposto di quella seguita e che costituisce ¿ per fare un esempio ¿ la vegetazione della massima parte dei giardini, privati o pubblici che siano, soprattutto del centro e del nord d'Italia. È un fatto curioso come siano in pochi a rendersi conto di come la maggior parte dei giardini dentro le nostre città o attorno alla città, che si trovino in Emilia, nel Lazio, e poi più su in altre regioni, in Lombardia in Piemonte, siano costituiti principalmente da una vegetazione arborea del tutto estranea a quella locale, presente in modo frammentario o scomparsa: c'è una assoluta, costante prevalenza delle conifere. Provate, nella maggior parte di questi spazi verdi, a trovare anche una sola quercia.
Tiglio e Carpino bianco

Desidero dirlo subito: non vorrei dar luogo ad un equivoco, non vorrei che da questo mio discorso si inferisse che io sia un fanatico seguace del proclamato credo ambientalista, accettato alla lettera dai neofiti, "solo piante autoctone". Cosa sarebbero diverse nostre città del sud o anche della riviera ligure senza piante esotiche, o le nostre città del nord senza le Magnolie (che pure molti milioni di anni fa sono state "autoctone")?
Fermandoci all'Emilia, dove insegno da dieci e più anni e dove ho anche occasione di operare, mi appare un assurdo che nei giardini (diversamente che in altri paesi oltre il nostro confine, nel centro e nel nord d'Europa) la vegetazione consista in massima parte di conifere squallidamente sempre uguali in tutte le stagioni e dove per trovare, non dico un faggio, ma quel che è peggio, una sola quercia, bisogna andare a cercarla col lanternino; non c'è cosa più assurda che nello spazio che apparteneva in gran parte agli Estensi il paesaggio originario, di cui i capisaldi erano costituiti dalle querce sopratutto, dai carpini, dai frassini, dagli aceri, dai tigli, dagli olmi per fermarci ai protagonisti, non rechi più o quasi in nessun luogo, nei pressi o attorno alle città, traccia della vegetazione originaria.
Certo, lo sappiamo bene, è avvenuta una rivoluzione storica, con la trasformazione dei precedenti territori boschivi in aree agricole, ma il fatto curioso è che, pur tenendo conto di questo mutamento, la vegetazione originaria sia stata eliminata in modo tanto radicale, abbia subito, specie dentro la città o i suoi immediati dintorni, sopratutto nei giardini, una sorta di rigetto quasi totale.
I giardini d'inverno di Palazzzo Hofburg, ricoperti da una fitta vegetazione di alberi e erbusti, luogo di incontro dell'aristocrazia locale, Vienna, 1852. (Da 'Giardinomania', Federico Motta Editore).

A mio avviso un fattore determinante, se non il principale addirittura, è stato, da parte e presso l'ascendente borghesia, l'affermarsi di una concezione del giardino quasi esclusivamente come simbolo di pervenuta crescita ed agiatezza, di un raggiunto superiore livello di classe; grazie al quale, per i possessori di quei verdi spazi, uno dei caratteri dominanti, se non il dominante, doveva essere quello di staccarsi da un paesaggio che in un modo o nell'altro faceva parte di un ambiente, di un passato rustico, da cui si voleva sottolineare quanto più possibile l'allontanamento, la distanza, dimostrandosi, e soprattutto apparendo, diversi. Già il possesso stesso di uno spazio destinato a giardino ne era un segno, e ancor più il suo distinguersi nettamente nelle sue componenti vegetali dall'ambiente che lo circondava. Si può quasi dire, e mi è già capitato di scriverlo ma voglio ripeterlo, che il rifiuto, il rigetto della vegetazione naturale e spontanea, nel momento storico in cui questi giardini sono stati creati, è stato altrettanto forte e reciso, se non di più, di quello degli elementi anche lontanamente sospetti di origine pagana da parte del cattolicesimo. Sarebbe anzi interessante a questo punto uno studio su come il giardino privato (e di conseguenza e a rimorchio quello pubblico) sia venuto formandosi quale possiamo vederlo oggi presso e assieme all'ascesa della borghesia, grande o piccola che fosse. Per tacere degli abietti preconcetti e pregiudizi massaieschi, purtroppo ancora non del tutto spenti, che le piante spoglianti vadano evitate perché "sporcano".
Città della Pieve, dintorni

Ma per tornare a parlare del mio modo di affrontare lo spazio del giardino, voglio ricordare come presso i cinesi, i quali sono stati tra i primi creatori di giardini (quelli giapponesi, con il loro carattere diverso, sono altro, ma all'inizio anche questi sono discesi dai giardini cinesi, come è accaduto anche nella poesia) era diffusa l'idea, quasi una regola, che l'ambiente che circondava l'area di progetto fosse considerato e valesse come un "giardino preso a prestito", il che, tradotto in altri termini, non può voler dire altro che l'intero spazio, del giardino o del parco che fosse, e del contesto vegetale, dovesse valere per la presenza di elementi costanti, in gran parte comuni ad entrambi. Certo, se si vuole, si può anche fare un giardino tutto di Camelie, di Rododendri o di Rose, perché no, non ho nulla in contrario, ma si tratta pur sempre di eccezioni, come eccezioni hanno da essere le introduzioni di singoli elementi esotici. Benissimo. Ma nella maggior parte dei casi (lasciando stare il giardino mediterraneo che esige un discorso tutto diverso), invece, quello che richiedo ad un giardino, perché acquisti una sua sostanza ed individualità, è che si armonizzi col paesaggio naturale originario, sia che in esso si trovi ancora situato o che quest'ultimo sia anche episodicamente o frammentariamente presente. Un giardino ove siano presenti e dominanti quelle costanti (si pensi ai parchi di Pückler-Muskau) che costituiscono la materia e sostanza fondanti e la struttura del paesaggio in cui o su cui si opera.
Guy's Cliffe House, Warwickshire

Ho avuto occasione durante la primavera scorsa, recandomi a Praga in auto, di passare per gran parte dell'Austria, di ammirarne il paesaggio nella sua straordinaria coerenza e costanza; e ancora mi succede in alcuni casi di esser preso dal paesaggio, per esempio da quello che si vede passando in treno da Roma verso nord, poco prima di arrivare a Città della Pieve ed anche dopo, anche questo di altrettale coerenza (e mi stupisco come questi due spazi non siano mai ancora stati assunti e trattati come un parco); ma subito dopo il mio viaggio attraverso l'Austria mi è accaduto di percorrere in macchina, per recarmi in Piemonte da Ferrara, buona parte della pianura padana ed ho potuto constatare che dove non domina assoluto (quasi dovunque) il paesaggio agricolo, quel poco residuo è ridotto ad uno scomposto scacchiere di spazi di risulta, a veri e propri relitti che sono stati utilizzati nel modo più incoerente, incongruo, caotico per costruzioni fabbriche depositi e altre cose del genere, e in nessuno di questi luoghi mi è apparso leggibile uno sforzo di mantenere degli spazi dove appaia evidente l'intenzione di conservare il paesaggio, sia pure frammentariamente, nel suo aspetto originale. E ancora di recente ho avuto l'occasione di percorrere le zone attorno a Verona e di vedere una numerosa serie di giardini privati, anche qui trattati dai loro possessori come tutti uguali, e per me avvilenti, coacervi di conifere.
Un giorno Sciascia parlando dei nostri fiumi scrisse che da quanto appare gli italiani non mostrano di apprezzarli ed amarli; io posso aggiungere ancora, come appare evidente da ciò che ho detto a proposito dei giardini borghesi creati dopo l'unità d'Italia, che gli italiani, da quanto si ricava guardando i loro giardini privati concepiti in serie, non hanno mai mostrato (come diversamente avviene in Europa) l'intenzione di conservare, di dare respiro ed un senso compiuto agli elementi originari, cacciati, distrutti o esclusi.
A questo proposito sarebbe opportuno anche un altro discorso: un giardino concepito dando risalto agli elementi del paesaggio locale (come spesso avviene al di là delle Alpi) occorre pensarlo sempre come uno spazio in evoluzione; la quercia e gli altri elementi di cui ho parlato in precedenza molto difficilmente e raramente sono già presenti, relitti questa volta in senso positivo, nello spazio che si vuole progettare a giardino; il quale nella maggior parte dei casi andrebbe considerato come uno spazio in evoluzione per il suo futuro, cosa non facile da far accettare ai committenti, dominati per la maggior parte dal principio perverso, nel caso del giardino come della casa, delle "chiavi in mano e così sia".
Un discorso che merita di esser continuato in altra occasione.

giovedì, agosto 09, 2007

Je ne regrette rien....




IL PUGILE INNAMORATO

di Rossana Campo
18settembre 2006

La sera prima le cose erano diventate un po’ pesanti, l’anima mi era stata presa dalla tempesta e avevo bevuto troppo. In più, mi ero messa a guardare un lungo documentario su Hubert Selby Jr. trasmesso dalla televisione francese. Selby era morto due anni fa e io me ne ero rimasta a guardare questo incredibile scrittore che verso la fine della sua vita assomigliava a un uccellino spelacchiato, col corpo devastato, come prosciugato da una malattia ai polmoni e da decenni di alcolismo e compagnia bella. Stavo lì a tirare giù la vodka allungata col succo d’arancia e guardavo i suoi occhi rotondi e innocenti come quelli di un neonato, la sua faccia da ragazzino di 75 anni. Per certi versi mi ricordava mio padre. Guardavo Hubert camminare per le vie di Los Angeles, lo guardavo che portava a riparare il suo stereo, che parlava di Beethoven col cinese del negozio di riparazioni. Poi il vecchio Hubert Selby aveva sparato questa frase che mi ha colpito come un diretto in pieno petto, ha detto: Non è che si diventa felici, nella vita. No, non è così, perché la felicità è una condizione che abbiamo già, dentro di noi, e la possiamo sentire. Basta che smettiamo di fare le cose che ci fanno stare male.
Hubert se n’era andato e mi aveva lasciato quest’ultima dritta. Aveva ancora detto che quando sua moglie l’ha mollato per un altro lui ha cercato di non sentire odio o cose del genere, ma ha provato a pregare per lei. E questo l’ha fatto sentire meglio.
Allora ho deciso di fare una cosa che non facevo da un sacco di tempo, sono andata a trovare mio padre.

In Italia ci sono le elezioni e noi siamo andati a votare. Abbiamo buttato giù un paio di bicchieri prima del voto e un paio dopo. Verso le sei siamo andati a fare una passseggiata sul lungomare di Albisola e poi siamo venuti a sederci ai tavolini del bar Mara, giusto in tempo per l’aperitivo. No, non siamo ubriachi ma un po’ su di giri sì.
Ce ne stiamo seduti tutti e due al tavolino del bar in silenzio, non stiamo pensando a niente di speciale, non parliamo molto e non ci diciamo le solite cose che si dicono le persone dopo parecchio tempo che non si sono visti. La giornata è pittosto calda, arriva anche un po’ di vento dal mare. Lui si è messo una camicia arancione e un paio di calzoni chiari larghi un po’ consumati sulle tasche e tira sulla sigaretta come se niente fosse, come se non avesse gli anni che ha e come se mai nessun medico gli avesse detto di chiudere con le sigarette e di dare una bella frenata all’alcol.
Mi dice: Di’, ne vuoi un altro? Prendine un altro va’ che me lo piglio pure io.
Dico, Va bene, e poi gli faccio, Come va col tuo medico, l’hai visto?
Lui mi dice: Quello è uno stronzo, quello è uno specialista in rottura di palle,
Io sento subito un fastidio salirmi dallo stomaco, dico, Possibile che hai quasi 75 anni e ancora devi dire queste cose? Sei come un bambino,
Lui mi dice, Mo’ non ti ci mettere pure tu a rompere i coglioni eh,
D’accordo dico,
Vabbe’, non mi fraintendere, non dico che è una cattiva persona, però lo sai che è un rompicoglioni, mi conosce da tanti anni e ancora mi deve fare la morale,
Occhei,
Mh,
Però è un bravo cristo, lo hai detto pure tu, ti ha aiutato tante volte,
Sì, ma al mondo ci stanno un sacco di brave persone, tutte brave persone, e guarda come siamo ridotti,
Come siamo ridotti?
Che tutto va a farsi fottere,
Va bene, dico.
Tu tutto okay, stella?
Sì, tutto sotto controllo,
Mi dice: E col tuo amico, sta andando bene col tuo amico?
Eh?
Che c’è, non ce l’hai un amico?
Ma sì che ce l’ho,
Allora tuttapposto?
Sì come no, tuttapposto, ci siamo lasciati.
Mh... mh..
Eh sì.
Stelli’, guarda che se quello stronzo non ti vuole è segno che non ti merita.
Quello che dico anch’io, pa’,
E fai bene,
...
E mo’ che fai?
Sono tornata a fare un po’ di pugilato.
Ancora co’ sto cazzo di pugilato?
Ancora, ho detto io, ho tirato giù un altro po’ di vino bianco e mi sono messa a citare Jack London. Ho detto: Come dice Jack London, il pugilato può essere brutale, sì, ma ci sono cose peggiori nella vita. Per esempio il pugilato ha delle regola di condotta precise, e ci vuole un certo far play per boxare. Ho detto: Certi colpi sono proibiti, non è ammesso che dei giganti incontrino dei nanerottoli. Nel pugilato, pa’, i pesi medi si battono coi pesi medi, i massimi coi massimi e i leggeri coi leggeri.
E allora? ha detto lui, Che credi, che non le so ste cose? Pure io ero appassionato di boxe.
Lo so,
E credi che questo risolve tutto, nella vita?
No, ma prendi la mia storia, io e quel deficiente..
Embe’,
Mi ha messo al tappeto quel bastardo, mi ha tirato dei colpi bassi, e non ha usato nessun far play, in tutta la vicenda.
Ma lascialo stare a quello! Senti un po’, e dov’è che vai a allenarti?
Vado sempre allo stesso posto, si chiama l’Indomptable, sta in una specie di sottoscala, c’è puzza di grasso di ristorante, e di anni e anni di sudore, e anche di qualcos’altro.
E che significa Indomp...
Significa qualcosa che non puoi sottomettere,
Significa indomabile?
Una cosa del genere, sì.
‘Azz ma so’ mica fascisti?!
Ma va’! C’è Gino che tiene la palestra, è un ex pugile di origine italiana, un sardo, e il suo socio Jojo che è un francese del sud, di Marsiglia. Una bella coppia, li dovresti vedere. Poi c’è Sita, una ragazza che arriva dalla banlieue, un’algerina, femminista radicale, capelli rapati a zero, peso mediomassimo, una tipa davvero forte.
E com’è che ci sei finita in questo bel posto?
La prima volta ci sono passata davanti per caso. Era febbraio, faceva freddo e io ci avevo voglia di menare le mani. Sono passata lì davanti e c’era un cartello che diceva: L’Indomptable. Pugilato maschile e femminile. Così un giorno sono entrata. Ho visto Gino e lui mi ha detto che prima di passare al sacco e menare le mani dovevo fare un bel po’ di ginnastica. Ha detto che mi dovevo intostare per bene, prima di dare e ricevere colpi. Io che sono sempre stata una gran pigrona e che a scuola l’ora di ginnastica mi faceva cagare, mentre parlavo con Gino che mi esponeva questa sua semplice e diretta filosofia mi sono entusiasmata. Era un principio sportivo sì, ma poteva calzare a pennello anche per i fatti della vita. Mi sono lasciata prendere subito. E ho cominciato a darci dentro, ogni giorno. Andavo lì in quel posto con la puzza di grasso e facevo gli esercizi che Gino mi diceva, flessioni, addominali, corsa, salto con la corda. E questo prima di vedere il film di Clint Eastwood, eh, stiamo parlando di molto tempo prima.

Lui si mette a ridere, mi guarda e vedo che qualcosa è successo. Una minuscola magia, un prodigio minore dentro la sua capoccia. Si è messo di buon umore. Adesso forse mi vede, e quello che vede gli dà allegria, non so perché succede ma succede. Continua a ridere con gli occhi e mi fa:
A me sai chi mi piaceva come pugile?
Eh,
Marcel Cerdan.
Sì?
Il Bombardiere di Casablanca. Quando ero andato a lavorare in Francia, a vent’anni, parlavano solo di lui. Eh, sai quanto cazzo ha pianto Edith Piaf quando è morto? Quella era una grande storia d’amore! Lui era sposato, ci aveva pure una moglie, ma il grande amore erano loro due, Marcel e Edith, altro che cazzi! Quando lui è morto lei piangeva e gridava, si strappò i capelli in testa. E mentre stava cantando, quella canzone che diceva se un giorno morirai... se un giorno morirai... se n’è svenuta, caduta per terra che pensavano che era morta pure lei, per il dolore.
...
Mi ricordo che avevo letto sui giornali quando ha fatto il famoso incontro a Detroit con Jack La Motta. Maronna!! Cerdan ci aveva la spalla sinistra completamente spappolata e aveva combattuto con una sola mano. Dicevano che alla ottava, o nona ripresa, il suo allenatore aveva detto: Marcel, tu stai fuori di capa, tu sei impazzito, io lancio l’asciugamano, basta. E sai Marcel che gli ha risposto?
No,
Gli ha detto: tu fallo e io mi ammazzo.
La madonna,
E no!
...
Sai che gli avevano detto a Cerdan, un mago, uno di quegli indovini, gli aveva detto che non doveva viaggiare in aereo, che era pericoloso e soprattutto non doveva viaggiare di venerdì. E lui che ha fatto, ha preso l’aereo lo stesso, e pure di venerdì. E se n’è muort’! Si è schiantato.
Porca miseria.
Pensa che lui stava per prendere la nave. Doveva andare in America, e ci voleva andare con la nave. Poi proprio Edith Piaf gli dice, no, fai presto fai presto amore che senza di te non resisto. E quello si prende l’aereo. E si schianta.
Porca miseria,
Eh quando si mettono in mezzo le donne, sempre guai, poco ma sicuro.
Che stronzate,
E no. Lo chiamavano il campione gentile, era un uomo molto gentile, e combatteva senza risparmiarsi mai. Lo chiamavano il bombardiere marocchino, anche se era algerino.
Sì, ma due parole sulla moglie le vogliamo spendere? Dico io, ci vogliamo mettere un secondo nei panni della moglie, tradita e scornacchiata davanti a tutto il mondo, eh?
Eh la moglie! La moglie si è attaccata al tram!
...
Cazz’, allora ero giovane, altroché... ne prendi un altro?
D’accordo,
E pure io ne prendo un altro! Robbè, portacene ancora due. Sai una cosa, a volte mi sento come uno che vorrebbe fare ancora qualcosa, qualcosa di bello, un po’ a testa di cazzo, prima di andarmene...
Per esempio?
Eh , mi piacerebbe sparare ancora qualche cartuccia come si deve,
Oh pa’ che significa, che vorresti fare,
Ma è ’na cazzata...
Dai dimmela lo stesso,
Mo’ te lo dico,
Allora?
Mi piacerebbe volare.
...
Eh, mi piacerebbe prendere un aereo e guidarlo, farmi un cazzo di volo e affanculo tutti,
guidare un aereo. Io, per i fatti miei.
Un aereo,
Eh un aereo, che sei sorda,
Dici nel senso di pilotarlo. Non di prendere un aereo, di farti un viaggio,
Che viaggio, a prendere un aereo sono buoni tutti, ti compri un biglietto e vai, questo lo sanno fare tutti, qualunque stronzo mo’ prende e sale su un aereo.
Dunque vorresti volare, pilotare,
Eh ti pare strano,
E perché non lo fai,
Perché prima dovrei prendere le lezioni, prima ci stanno tutti i cazzo di corsi, poi devi pure fare gli esami della vista, del cuore, ci stanno tutti sti cazzi di controlli, ma che rompicoglioni. Poi mi hanno già detto che so’ vecchio,
Questa è una cazzata,
Ti pare!
Questa è proprio una stronzata pa’,
Quello che ho detto pure io,
Ci sei rimasto male?
Chi io? Figurati, quelli sono solo una massa di stronzi,
È così,
Però è forte la storia di Marcel Cerdan, eh?
È forte sì,
Il bombardiere marocchino,
Che invece era algerino,
Eh, sì. Ma veramente ti piace la boxe a te?
Mi piace sì, e mi ha salvato il culo per molti versi.
Me’ ma sempre questo modo così volgare di esprimerti!
...
Comunque ricordati quello che ti dice papà,
Sì, a proposito di cosa,
Che se uno non ti vuole, se uno non ti sa apprezzare...
...è che non mi merita,
È così.
Cazzo è così sul serio.
E non essere volgare.

martedì, agosto 07, 2007

nel dubbio...tengo giù!



E/TYPE. 4.2 COUPE'

cilindrata
4.235
cilindri
6 in linea
potenza hp/rpm
265/5.400
testa
straight port
carburatori
3 S.U. HD8
lunghezza/m.
4,46
larghezza/m.
1,66
velocità/Km/h
241
presentazione
10/1964
fine produzione
9/1968
unità guida sinistra
5.813
unità guida destra
1.957